“Nel
cinema, gli attori sono la borghesia, l’immagine è il proletariato; la colonna
sonora è la piccola borghesia eternamente oscillante tra l’una e l’altro.
L’immagine, in quanto proletariato, deve prendere il potere nel film dopo una
lunga lotta.”
Eccola qui, riportata per intero! Una eventuale epigrafe che
in modo improbo pre-tende di
sintetizzare l’idea –proprio “l’idea”- della cosiddetta settima arte. Siamo
negli spazi e nei tempi del montaggio di Io
sono un autarchico, primo lungometraggio, del 1976 (prima data da
memorizzare fra le altre che qui si richiameranno), di Nanni Moretti. Un film
che è una meta-riflessione (ovvero, avanzamento
eccedente dell’astratto capitalistico sul concreto della vita materiale) sulla
condizione borghese (piccola, media e grande) incapace di situarsi attivamente
nel flusso di trasformazione del reale che gli scorre addosso, avvolgendola dal
“di dentro” e costringendola asserragliata in anguste angosce esistenziali e in fallimenti esistentivi (tanto per menzionare en passant categorie heideggeriane che
diverranno à la page in quegli anni) Un
improbabile “tutto” (dialetticamente? binariamente?) decomposto di quell’epoca
e di quella stagione, tanto particolare quanto cruciale e dirimente della
storia italiana, viene rappresentato a mezzo pellicola: l’attacco esplicito alla
commedia “neorealista” e sinistrorsa del cinema –“specchio” del costume-
italico (Wertmüller, Monicelli fra tutti) e quello congiunto alla critica della
semiotica decostruttivista e postmodernista, incompresa, incomprensibile (soprattutto
fra i “giovani comunisti”, post-togliattiani e neoberlingueriani della FGCI,
sezione romana, frequentati al tempo da Moretti Nanni); e inoltre
incomprensibilmente posta, con forse inconscia palindromica perizia, come dialettica
riflessiva (di nuovo!) del montante capitalismo neoliberista, “desiderante” e
anticentralista/antistatalista, di quegli anni (si veda tutto ciò nei due
“cammeo” dell’allora giovane sociologo Alberto Abruzzese e del critico Beniamino
Placido assieme ai relativi riferimenti a Deleuze-Guattari. Il “tutto-discorso”
messo a ipotetico valore nello “scandalo” scoperto della cripto-autorialità per
serratissime critiche di riviste e film pornografici). Non si può, per altro,
dimenticare un altro topos del film,
ossia quello relativo al momento in cui il Moretti/Michele Apicella legge e
rilegge i passaggi del Capitale di
Marx riguardo al dualismo/feticismo delle merci (valore di scambio/valore
d’uso), ammettendo candidamente di non essere capace di comprendere alcunché e
dubitando –cartesianamente si direbbe- di aver, forse, “sbagliato ideologia”.
Eppure, riprendiamo la citazione: “l’immagine (il lavoro vivo produttivo dell’immaginazione che però al contempo diviene
lavoro prodotto estraniato, prodotto-immagine alienata in altro da sé, nonché
il disincanto nei confronti della passata prossima “immaginazione al potere”)
è il proletariato, gli attori sono la borghesia (l’appropriazione –di rappresentazione/rappresentanza- individualistica
del lavoro-opera- che è estraniato, in quanto alienato soggetto-attività e come
oggetto-prodotto dell’immaginazione), la colonna sonora è la piccola
borghesia eternamente oscillante fra l’uno e l’altra (la funzione meschinamente sottomessa e gregaria; ovvero, dell’ascoltare
subordinato al vedere: “ciò che si vede e si deve soprattutto e soltanto vedere (panopticon foucaultiano, o al limite orwelliano); imperativo che
funziona specialmente quando “non c’è niente da vedere”. Beh! Verrebbe da
dire parafrasando poeti cantori “se non del tutto giusto, poco di sbagliato”.
A tale proposito, un’altra data un altro autore-regista:
1928, immanente e imminente anno aurorale
(termine anche derivabile da aura) di
quel 1929 e quindi dell’anno della “crisi delle crisi” (almeno così fu
dichiarato, prima che accadesse quella corrente che dura da otto anni e gode a
tutt’oggi di ottima salute) del capitalismo, allora di foggia sec. XX, il
“breve”. Luis Buñuel scrive, dirige, produce e interpreta Un chien andalou. È una pellicola la cui scena incipit è tra le più
memorabili, impressionanti e
insuperabili della storia cinematografica. L’immagine-movimento (o anche
immagine-tempo, scomodando Gilles Deleuze) rappresenta
una sequenza implacabile di scene concatenantesi, eppure senza accelerazioni:
la luna, il rasoio affilato, l’occhio sinistro della donna, il taglio
dell’occhio … Capolavoro surrealista e arte efficacemente primordiale del
montaggio; quando la parola Photoshop poteva avere solo un significato idiomatico
letterale senza neanche minimamente poter alludere a tecniche digitali odierne.
L’occhio –come quello di Bataille,
per niente estraneo a quel melieu transalpino
del movimento promosso da André Breton, fatto anche e soprattutto da ispanici
come lo stesso Buñuel e Salvador Dalì- è il soggetto-oggetto,
l’osservante-osservato, l’attivo-passivo, il taglia-incolla del lavoro –inteso
come attività- del montaggio proprio
(e per questo ex-propriabile) del regista-cineasta in quanto autorialità che vuole, pretende di essere più che avere l’opera, in un ormai
ben riconoscibile cortocircuito ambito e desiderato da tutte le avanguardie
storiche (cioè novecentesche): azzerare lo scarto tra arte e vita quotidiana.
Del resto del potere della rappresentazione cinematografica
come “Opera d’arte nell’era della sua
riproducibilità tecnica”, e perciò di
massa, un giudizio pressoché incontrovertibile lo aveva già stilato Walter
Benjamin. Con la tecnica cinematografica l’opera d’arte perde la sua aura; il valore espositivo e simultaneamente riproducibile nel tempo e nello spazio prevale,
soverchiandolo, il valore cultuale-rituale
di autenticità e unicità di una
presupposta “universale-naturale-classica” (per così dire) bellezza attribuibile, in quanto giudizio, a un’opera che voglia dirsi d’arte. Tutto ciò comporta una
conseguenza “epocale”: la tendenziale
fine della distinzione fra autore e pubblico. O, meglio forse, una modificazione radicale del rapporto fra i
due elementi.
Andy Warhol, in particolare, nell’arte “propriamente detta” e
Guy Debord, con la nefasta profezia scaturente dalla di lui assai rigorosa
analisi critica della società dello
spettacolo, metteranno, ciascuno a proprio modo, una parola definitiva
sullo stato dell’arte (da intendersi
tanto come condizione quanto come istituzione/istituzionabilità, senza
limite politica), nonché sul potere
della rappresentazione, non più mimesis della realtà, bensì vera e
propria teurgia dello sviluppo capitalistico che attraversa, finendolo, un
secolo (il “breve”) e si accavalla, iniziandolo, un millennio (siamo all’oggi).
È, di nuovo, una cortocircuitazione –assai perversa- tra astratto e concreto,
dove quest’ultimo si allontana dall’esperienza vissuta fagocitandosi nel primo.
La rappresentazione sussume realmente (in
senso marxiano) la realtà, annichila la mediazione e perciò revoca
nell’a-significanza l’idea di rappresentanza,
nell’eterna ripetitività riflessiva dell’uguale modernità (tra Nietzsche e
Ulrich Beck). Il capitalismo è oggi
soprattutto il finanziario. Il
simbolico-convenzionale (persino “ritual-cultuale”) denaro (=D) non ha più
bisogno di mediarsi, cioè di scambiarsi con
una merce (=M), fosse pure quella della corporeità della forza-lavoro, per accrescere
la sua potenza e il suo dominio virtuale
(e perciò astratto-effettuale) sul reale-concreto (dinamico potenziale): D-D’
(‘ = accresciuto) è la tautologica formula –cioè, identità senza differenza-
che descrive il potere demiurgico dell’ultimo capitalismo finanziario che
azzera ogni mediazione, fosse pure
solo quella della concreta merce M(D-M-D’, era la formula del capitalismo
pre-industriale e poi industriale tout
court). In tale formula, che rappresenta
il processo dominate corrente, non c’è spazio né tempo per i “corpi
intermedi” (“non c’è posto! Non c’è posto”, come dichiarava, inveendo, seduto
accanto al cappellaio matto a ridosso di una lunga tavola circondata da sedie
vuote, il leprotto di marzo di “Alice nel Paese delle meraviglie”).
La famigerata “Scuola di Chicago” negli scorsi anni ’50-’60
(una prolifica fucina di teorici –i “Chicago Boys”-del neoliberismo e
progettisti di “piani Condor” da implementarsi specialmente nel “cortile di
casa” latino americano) aveva appena iniziato a somministrare robuste dosi di
nuove “idee” (che diventeranno e saranno) dominanti a destra e a manca: capitale umano e imprenditoria di se stessi;
ovvero adeguarsi al nuovo imperativo categorico di misurare econometricamente –costi/benefici/rischi/assicurazioni
preventive e valutazione quantitativa- il proprio corso vitale. Hic Rhodus, hic salta! Ognuno sia
artefice di se stesso e se si fallisce è solo colpa propria:né mano invisibile
del mercato né mano visibile dello stato: tutto è
individuabile-individualizzato (non esiste società, esistono solo individui e
famiglie avrà già detto l’altro capostipite del neoliberismo von Hayek, ripreso
a menadito dalla Thatcher). Quale potrebbe essere qui lo spazio per “corpi
intermedi” e per “rappresentanze”?
Diceva un esperto, ben più che semplicemente coinvolto nel
settore, quale è Oliviero Toscani, che “la pubblicità [in senso commerciale]è
la pornografia del potere”. Se, come dovremmo francamente fare, prendere sul
serio questa “sentenza”, allora dovremmo pure poter asserire che la pornografia è la (unica) pubblicità [anche in senso
politico-sociale] del potere. Nell’era
della riproducibilità, indefinibile quando non infinita,tecnico-digitale;
dell’imprenditoria di se stessi come imperativo direttivo per ogni condotta individuale e sociale; del
capitale umano (ovvero e soprattutto del corpo scarnificato e scarnificabile in
merce astratta e misurabile in quantità virtuali di denaro) … In quest’era,
appunto, che statuto ontologico-esistenziale può avere un “corpo intermedio”
oppure un autore che “metastruttura” un testo diverso dal contesto? Negli anni
’80 del secolo appena trascorso ci fu il boom delle videocassette: il VHS,
soprattutto di film porno, fondeva lo
spettatore con l’HOME VIDEO (si confronti Videodrome
di David CRonemberg), nonché fondava materialmente
l’individualizzazione sociale in
coerenza con lo Zeit-Geist della
Tathcherite-Reaganomics. L’era di Internet ha portato “Youporn”, con i suoi video a tema per
ogni gusto (“mature”, “attrici” –sic!-, “grasse”, “bisexual”, “solo male”,“fai
da te” ecc. ecc). Ma questo è solo un aspetto delle potenzialità di autoproduzione/autogestione (parole
chiavi dell’antagonismo detournate/sussunte
dal capitalismo contemporaneo) che offrono le nuove tecniche/tecnologie,
traducendole nella neolingua come “start-up”. Però è un aspetto non affatto
irrilevante. Dobbiamo certamente rilevare la consunzione o, meglio,
l’esaurimento di certe “mediazioni” come quelle che intercorrevano fra autore-opera-attore,
come queste categorie (anche categorie del “politico”) siano ora quantomeno
cortocircuitate. Oppure dobbiamo renderci conto di come quelle mediazioni
fisiche che rendevano il “cinema”, in quanto spazio pubblico e luogo possibile
di fruizione dell’opera d’arte “pubblicata”, siano in effetti divenute
economicametricamente (in senso capitalistico) “insostenibili”. Eppure,
possiamo altresì rilevare che nella pornografia
in quanto unica pubblicità includente e a suo modo universale nella sua spinta
individualizzante, durante l’epoca capitalistica contemporanea, forze “improduttive”
(ovvero, non capitalisticamente produttive) attraversano la sua organizzazione
societaria, bucandone gli schermi e gli specchi che ne articolano la
strutturazione funzionale. In un passo della Genesi (38, 8-1): Perciò
Giuda disse a Onan: “Entra dalla Moglie di tuo fratello, compi il tuo dovere di
cognato e suscita prole a tuo fratello”. Ma Onan, sapendo che la prole non
sarebbe sua, quando si accostava alla moglie di suo fratello, impediva tutto
emettendo in terra, per non dare prole al suo fratello defunto. Ciò che egli
faceva dispiacque molto al Signore, e fece morire anche lui.” Onanismo o
elogio dello spreco (così, più o meno, anche Bataille nel saggio sulla Sovranità) come infunzionalità, inoperosità nei confronti dei comandi del Potere
che ordina con schermi multisala. Suscitare l’ira “divina” del
capitale-rappresentazione è una bella ipotesi perseguibile. Reclamare “il
cinema” come spazio pubblico di spreco e insieme antieconometrico per una nuova
costituente pubblicità è, vivaiddio, “inutile”!
Romano Martini
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