La fregola della Pinotti e Gentiloni, ansiosi di indossare l’elmetto per una ennesima guerra di Libia sembra rientrata nelle dichiarazioni di Renzi, apparentemente orientate alla ricerca di una convergenza Onu ed a smarcare l’Italia da un ruolo decisionista che non ha portato bene ai francesi; così come non ha portato bene la scelta sconsiderata ed autolesionista di imbarcarsi nella guerra del 2011, sulla quale il Pd aveva spinto contro un riluttante Centrodestra, più che altro per mettere in difficoltà il governo Berlusconi. Ora le parti sembrano invertite, con il segretario –premier che mette in riga i suoi esagitati e Berlusconi che si dichiara pronto alla guerra, visto che non c’è più il suo amico Gheddafi.
Non crediamo che tale prudenza, l’appello per una soluzione diplomatica internazionale che risolva la dualità (in realtà pluralità) di poteri nel paese, possa ritardare troppo un nuovo intervento occidentale ma forse allontanerà quell’impulso avventurista poi rimangiatosi da ministri e parlamentari, compresi quelli della Lega. Così come sarà questione di tempo l’intervento di terra contro le altre ben più consistenti propaggini del Califfato. Il Papa ci mette del suo (ma fa il proprio lavoro) quando dichiara che i copti egiziani sono stati uccisi solo perché cristiani: i politici devono sapere che sono stati uccisi anche in quanto egiziani perché nella incerta polarizzazione delle milizie e delle tribù successiva alla caduta della Jamahiriya si è oggi arrivati a due governi: uno, Alba Libica, con sede a Tripoli guidato da Omar al Hassi ed uno a Tobruk con premier Abdullah al Thani ma in realtà influenzato dal generale, con buone credenziali nella Cia, Kalifa Haftar. Dietro queste coalizioni, pur divise al loro interno ed in difficoltà nel controllare efficacemente i territori prossimi alle loro sedi istituzionali e gli oleodotti, si muovono gli agenti regionali che stanno alimentando altre guerre civili, a partire da quella siriana e quella a bassa intensità egiziana. La Turchia ed il Qatar sostengono Alba libica ed in particolare le milizie di Misurata, divenuta una sorta di città stato con forte influenza dei Fratelli Musulmani, mentre il generale laico e golpista Al Sisi, acerrimo nemico della Fratellanza, continuando la “innaturale” alleanza con Arabia Saudita ed Emirati, sostiene il governo laico di Tobruk sponsorizzando apertamente il suo emulo Haftar. Questo spiega l’esecuzione dei copti oltre le motivazioni religiose e la prontezza del governo egiziano a cogliere il pretesto per bombardare il territorio libico provocando molte vittime civili, interventi appoggiati a Tobruk ma condannati dal governo Al Hassi. Con queste azioni Al Sisi non mira a colpire i sedicenti sodali del Califfo più che a mettere in difficoltà i nemici della Fratellanza, pericolosamente insediati ai suoi confini. La presa di città come Sirte e Derna, con i giacimenti petroliferi intorno e la posizione strategica sulla costa, rivendicata da milizie autoproclamatesi fedeli al Califfato, può render conto sia di dinamiche rivali interne alle formazioni islamiste libiche (come Ansar al Sharia) che alle diversificate ingerenze saudite, oggi convergenti con l’Egitto per quanto riguarda la lotta contro i rivali ottomani e qatarioti, ma rispondenti a proiezioni strategiche proprie sia geopolitiche che in materia energetica. La giustificazione data dai nostri ministri di esteri e difesa, per l’urgenza dell’intervento è stata per una volta scevra da ipocrisie, mettendo al centro i rischi per l’accesso alle risorse energetiche; soltanto che qualcuno dovrebbe informarli quanto il nostro approvvigionamento dalla Libia si sia sostanzialmente ridotto negli ultimi tempi, a fronte di una riduzione generale dell’estrazione e commercializzazione del greggio nel paese, con un gettito passato dai circa 60 miliardi di dollari dell’immediato post-Gheddafi agli attuali 15ml; e quanto abbiamo sostituito questo mancato gettito, frutto del genio interventista del duo Napolitano-Bersani, con le forniture russe: ossia come oggi siamo dalla padella alla brace. Da questa situazione, come dal mantenimento di bassi prezzi del barile, l’Arabia e gli Emirati se ne avvantaggiano, come si avvantaggiano dai ripetuti bombardamenti di Haftar su giacimenti e terminali controllati dalle milizie alleate al governo rivale, oltre che della generale instabilità che porta a continui atti di sabotaggio delle risorse energetiche. I consiglieri di Renzi sembrano consapevoli che una missione militare all’avventura come vorrebbero Pinotti e Gentiloni, in questo simili al Bersani interventista, costerebbe molto. Se si vogliono salvare gas e petrolio non si può solo bombardare, come fatto dal 2011, ma occorre andare sul terreno mettendo in conto parecchie perdite dei nostri bravi volontari soldati e carabinieri, rischiando attentati in casa, ondate bibliche di profughi usati come arma; dovremo sostenere prolungati blocchi navali e districarci tra un ginepraio di interessi contrapposti dei paesi arabi e delle milizie sul terreno. Arrivare ad un accordo tra i due governi autoproclamatisi in carica, soluzione al momento improbabile, non garantirebbe nessun intervento tipo Libano, sia perché non c’è nessuna frazione della potenza di Hezbollah e suoi rivali di allora, sia perché le stesse coalizioni libiche non possono garantire sui loro provvisori e mutevoli alleati. Attualmente sono più o meno schierati con i laici di Tobruk parte degli ex sostenitori del passato regime, le milizie Toubu del Fezzan, quelle di Zintan, gli indipendentisti della Cirenaica mentre con Alba libica sono i Tuareg, i Berberi, le fazioni islamiche pur divise tra contigui alla Fratellanza (soprattutto a Misurata), ad Ansar al Sharia (Sirte e Bengasi) ed ora alle prese con l’opa del Califfato. La consapevolezza della complessità del terreno non scoraggerà a lungo dall’intervento e dall’opportunità di guidare una coalizione l’ambizioso Renzi, ambizioso non meno di quanto siano sciocchi i suoi frettolosi ministri. Aver chiuso l’ambasciata e rimpatriato i connazionali vuol dire prepararsi alla guerra ma per decidere i tempi si devono ancora trovare i Quisling interni su cui puntare e fare una comparazione di costi e ricavi; tra i ricavi quello di tirare avanti di fronte alle promesse mancate sull’uscita della crisi. Il nostro sforzo rimane quello di ricostruire un forte movimento contro la guerra e le ambizioni neocolonialiste del nostro governo, ponendo al centro la neutralità e la capacità negoziale dell’Italia, l’uscita dalla Nato, la fine delle servitù militari, la piena sovranità delle basi militari sul nostro territorio.
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