La liberazione di Mubarak può essere immediatamente letta
come un’ulteriore prova di tracotanza dei militari egiziani e dei loro sponsor
sauditi, un modo per approfondire il solco con quelle componenti liberal -occidentali
del movimento tamarrùd la cui mancanza di prospettive ed il cui spiazzamento
sono ben testimoniate dalla allucinata presa di posizione di Samir Amin
. E che una delle migliori teste post- terzomondiste prenda granchi tali da considerare l’intervento dei militari non per un golpe quale è, ma volto a garantire la volontà democratica ed antimperialista degli egiziani, rende chiaramente evidente il corto circuito in cui sono entrate anche le componenti di sinistra di quel movimento. Tuttavia è possibile che dietro la parvenza della restaurazione si manifesti un segno di debolezza dell’esecutivo golpista, consapevole che l’esercito non potrà sparare a lungo su metà dei connazionali, tanto più che esso stesso è pervaso da conflitti interni e divisioni. Una componente era legata organicamente al corrotto sistema di potere di cui Mubarak rappresentava la facciata paternalistica pseudo-democratica e laica; questa non ha digerito la disinvoltura con cui altri militari, a cominciare dal devoto Al Sisi, hanno tempestivamente cavalcato la rivolta, fingendo di assecondare la svolta democratica che ha portato i Fratelli Musulmani al potere. Ora che si rischia una guerra civile sanguinosa il governo golpista deve cercare di ricompattare l’esercito, cercare di prevenire e limitare le defezioni che potrebbero esserci, tenendo bene in mente la dinamica della Siria, paese che hanno contribuito a destabilizzare (di concerto con la Fratellanza). In questa ottica riesumare la mummia del faraone può voler dire pagar pegno al vecchio blocco di potere e a quella gran parte dell’esercito che ne costituiva la spina dorsale. Ma indica anche quanto avventurismo ed insicurezza si celino dietro l’ostentazione della forza.
. E che una delle migliori teste post- terzomondiste prenda granchi tali da considerare l’intervento dei militari non per un golpe quale è, ma volto a garantire la volontà democratica ed antimperialista degli egiziani, rende chiaramente evidente il corto circuito in cui sono entrate anche le componenti di sinistra di quel movimento. Tuttavia è possibile che dietro la parvenza della restaurazione si manifesti un segno di debolezza dell’esecutivo golpista, consapevole che l’esercito non potrà sparare a lungo su metà dei connazionali, tanto più che esso stesso è pervaso da conflitti interni e divisioni. Una componente era legata organicamente al corrotto sistema di potere di cui Mubarak rappresentava la facciata paternalistica pseudo-democratica e laica; questa non ha digerito la disinvoltura con cui altri militari, a cominciare dal devoto Al Sisi, hanno tempestivamente cavalcato la rivolta, fingendo di assecondare la svolta democratica che ha portato i Fratelli Musulmani al potere. Ora che si rischia una guerra civile sanguinosa il governo golpista deve cercare di ricompattare l’esercito, cercare di prevenire e limitare le defezioni che potrebbero esserci, tenendo bene in mente la dinamica della Siria, paese che hanno contribuito a destabilizzare (di concerto con la Fratellanza). In questa ottica riesumare la mummia del faraone può voler dire pagar pegno al vecchio blocco di potere e a quella gran parte dell’esercito che ne costituiva la spina dorsale. Ma indica anche quanto avventurismo ed insicurezza si celino dietro l’ostentazione della forza.
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