Non si capisce proprio l’entusiasmo di Landini & Camusso (o forse si) sul jobs act partorito da Renzi. Lo sbraco con cui si plaude alla proposta sulla legge di rappresentanza cozza sul modello di lavoratore, prima ancora che di lavoro, che andrebbe ad eleggere direttamente i propri rappresentanti e le loro proposte. Questi diventerebbero delegati seduti nei consigli di amministrazione delle aziende, senza reale potere di indirizzo nelle strategie produttive ma abilitati a sottoscriverne le scelte, magari proponendo azioni al posto dei salari ai loro iscritti. Dopo la concertazione si arriverebbe finalmente al passaggio successivo che negherebbe non soltanto il conflitto tra capitale e lavoro ma anche la timida divergenza tra gli interessi dei lavoratori e quelli dell’azienda.
Ulteriore forma di disciplinamento arriva dalla proposta di mettere le agenzie interinali e per l’impiego nella condizione di stilare liste di proscrizione che selezionino gli operai in affitto più meritevoli, cioè i più malleabili ai ricatti, cancellando dagli elenchi quelli dalle performance inadeguate. L’assegno per una forma indefinita di reddito sociale è condizionato alla disponibilità del disoccupato ad accettare qualsiasi lavoro gli sia prospettato dopo un eventuale primo rifiuto: ossia puoi rifiutarti una prima volta di raccogliere banane ma se poi ti rifiuti anche di raddrizzarle perdi la paghetta. Sull’art. 18, già ampiamente svilito e disatteso, si agisce ancora più in profondità: si vuole abituare i neoassunti (in genere i più giovani) a non avere diritti, promessi a tutele crescenti man mano che aumenteranno l’anzianità lavorativa. Non ci vuol molto a prevedere che sarà interesse delle imprese trovare pretesti per liberarsi di personale da regolarizzare rinnovando le forme di inserimento, lasciando maturare i contratti a tempo indeterminato solo per i più subordinati. Alla faccia del superamento del dibattito ideologico! Qui Ichino, se muore, è per invidia.
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