lupo

giovedì 10 luglio 2014

Un califfo a Roma?

Quanto sta avvenendo in  Iraq sembra porre di fatto fine ai vecchi confini coloniali, rimasti in piedi anche dopo l’affermazione storica dei movimenti anticoloniali e nazionalisti arabi; allora tutto bene? I popoli si libereranno finalmente dell’eredità lasciata dalla supremazia occidentale e da quell’ordine imposto prima dalla guerra fredda e poi dall’unipolarismo americano trovando, pur al prezzo di sanguinose guerre, una continuità territoriale più consona alle composizioni etniche, culturali e religiose delle popolazioni? Non crediamo proprio… sia perché la predominanza di queste formazioni storicizzate fornisce spesso ampio margine di intervento all’imperialismo, secondo l’eterna formula del divide et impera, sia perché i modelli sociali e politici che da tali conflitti scaturiscono, il più delle volte, non pongono negli esiti la questione della liberazione dalle catene dell’impero o da quelle dello sfruttamento di classe, anche laddove le agitavano strumentalmente, ma piuttosto perseguono interessi d’area e visioni egemoniche attraverso il controllo religioso.
 L’evolversi  e l’involversi della resistenza irachena, di cui la rivolta attuale delle popolazioni sunnite è in parte figlia, sta lì a ricordarcelo. Questo comunque non toglie che esistano motivi radicati a sostegno delle rivolte popolari sia in Siria che in Iraq o nei territori curdi, né che queste non possano prendere un corso rivoluzionario dove la visione sociale prevalga su quella etnico confessionale. Intanto sembra evidente che la rapidità e relativa facilità con cui l’Isil e le altre componenti ex baathiste e tribali hanno conquistato città e territori, dighe e raffinerie, portandosi fin alle periferie di Baghdad, denoti un ampissimo appoggio delle popolazioni nelle aree prevalentemente sunnite, con l’esercito che si è defilato quando non ammutinato, consegnando le armi (molte fornite dagli americani). Niente a che vedere con la situazione siriana, dove l’esercito sta ottenendo successi militari anche perché la popolazione sunnita non è schierata uniformemente con i ribelli, i quali sono a loro volta occupati in scontri intestini. Scontri che non sono da escludersi in un prossimo futuro anche in Iraq, soprattutto dopo la proclamazione del califfato attribuita ad Abu Bakr Al Baghdadi, essendo distanti gli esiti strategici nelle diverse componenti della rivolta. Al di la dei velleitari riferimenti  sull’estensione fino a Roma del Califfato, per molti combattenti i territori controllati servono a ridimensionare l’espansione persiana-sciita ed a formare un sicuro retroterra da dove continuare la guerra in Siria dopo i recenti rovesci; una visione molto più pragmatica rispetto a quella di un’età dell’oro, frutto di un armonioso modello di governo religioso che sembra prevalere nell’Isil.    Ricordiamo il rapido tramonto di una ipotesi di saldatura tra componenti sciite e sunnite della  resistenza irachena all’invasione a guida Usa del 2003, apparsa possibile fino alla battaglia di Falluja, per cedere il passo alla collaborazione del blocco sciita con gli invasori, supportata anche da quadri iraniani ed Hezbollah. E rammentiamo bene  il prevalere degli scontri intestini nelle componenti sunnite, tra le formazioni Jihadiste, in particolare quelle che rispondevano ad Al Zarkawi, e quelle nazionaliste e baathiste che portarono le seconde alla costituzione nel 2007 dei Consigli del Risveglio, collaborazionisti sponsorizzati dal Pentagono, i quali all’egemonia  iraniana (prima che sciita) preferirono la stabilizzazione dell’occupazione americana. Risalgono ad allora antecedenti  che portano alle attuali nuove alleanze in campo sunnita, in quanto le fazioni del baathismo legate ad Izzat Ibrahim Al Douri, l’asso di fiori già vicepresidente del Baath,rifiutarono questo cambio di campo, preferendo islamizzare le loro posizioni  nazionaliste, tanto antiamericane che anti iraniane. La forzatura rappresentata dalla proclamazione del califfato potrebbe nuovamente mettere in rotta di collisione queste ultime con le formazioni islamiche che stanno ottenendo l’egemonia sul campo, oltre che approfondire le rivalità tra gli attori esterni come Quatar, Turchia ed Arabia Saudita. La sponsorizzazione quatariota dei fratelli musulmani in Egitto ed il ruolo dei sauditi nel defenestrarli, addirittura in combutta con i militari laici, rende idea del quadro complesso in cui si stanno ridefinendo le sfere di influenza nell’intero Medio 0riente, così come delle ragioni che spingono le formazioni Jihadiste a scontrarsi tra loro in Siria ed in un prossimo futuro, probabilmente, in Iraq. L’occasione concessa dallo sfilacciamento dello stato maldestramente governato dal settario Nouri Al Maliki è stata prontamente colta dai curdi e dal loro presidente Masoud Barzani, i soli dimostratisi in grado di reggere militarmente l’offensiva dei ribelli sunniti con i loro peshmerga e di difendere territori e popolazioni già fruitori di ampia autonomia. La possibile via verso la costituzione di fatto di uno stato curdo allarma i paesi circostanti, particolarmente la Turchia, mentre avvicina inediti interessi parallelamente convergenti, come quelli di Israele ed Arabia Saudita, perché fonte di problemi per i paesi arabi (ma anche per L’Iran) nella visione dei sionisti, perché indebolisce i concorrenti nella logica saudita. Incerta sembra ad ora anche la posizione degli Stati Uniti dopo che fonti diplomatiche e militari avevano prospettato addirittura la possibilità di una alleanza sul campo con il nemico iraniano in funzione anti Jihadista, al momento allontanata, forse per il ricordo del vantaggio acquisito dall’Iran dopo la disastrosa conduzione dell’invasione all’Iraq. Un intervento (tanto più di terra) degli Usa porterebbe all’attrito con i paesi del Golfo e vantaggi ulteriori ad un nemico da trasformare ancora una volta in scomodo alleato. Quel territorio che si va delineando nell’utopia del califfato costituiva fino a poco fa parte del corridoio sciita, l’asse Teheran-Bagdhad-Damasco, lascito dell’invasione dei “volenterosi”e vederlo sostituire oggi da una entità sunnita, potenzialmente altrettanto ostile alla politica estera americana, per quanto preoccupi può non giustificare un intervento che rischia di ripristinare l’influenza iraniana precedente. Sembra preferibile per Washington, al di là delle polemiche interne alimentate dai repubblicani, continuare a soffiare sul fuoco, favorendo la destabilizzazione in Siria e auspicando un governo di unità nazionale equidistante dalle spinte settarie regionali (ma soprattutto che smetta il sostegno ad Assad) in Iraq. Sempre che la situazione sul campo non costringa a repentini ripensamenti. Incertezze che dimostrano non avere invece Russia ed Iran, schierati con il governo di Al Maliki, per quanto considerato inefficiente, apertamente i secondi, con uomini e mezzi; con forniture militari e supporto diplomatico i primi, già sostenitori della Siria, per via della base navale di Tartus, per interessi geostrategici rimessi da Putin al centro della visione grande-russa e per i problemi interni che vengono dai movimenti sunniti nelle aree islamiche della federazione, sostenuti dagli stessi sponsor che operano in Siria.

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