lupo

domenica 23 febbraio 2014

Sintesi intervento L.U.P.O. alla manifestazione Roal

Questa manifestazione ci rimanda ad una analoga iniziativa organizzata per la Best di Passatempo, dopo che la proprietà americana fece portar via gli  impianti in Polonia approfittando di un ponte feriale.  Ancora una volta l’acquisizione di capitali stranieri dei marchi italiani anziché rilanciare la produzione nel paese provoca delocalizzazioni, chiusura degli impianti e disoccupazione;  d’altronde non va meglio con i capitali italiani, basta guardare al caso Fiat. Il piano di sviluppo presentato dalla Efore non ha niente di industriale, prevedendo investimenti irrisori per ricerca  ed attività direzionali manifestando la evidente intenzione di dismettere l’attività direttamente produttiva, già in massima parte trasferita in Cina e Tunisia. I nostri territori risultano particolarmente vulnerabili alla crisi, sia perché si continua a consentire alle imprese medio-grandi di delocalizzare, sia per le ricadute che ciò comporta nel circuito dell’indotto, quella rete di piccole imprese legate in un recente passato a conduzioni familistico-territoriali, zoccolo duro del cosiddetto modello marchigiano che si trovano oggi private di commesse. La crisi occupazionale e conseguentemente sociale che ne deriva è aggravata ulteriormente dai tagli al welfare locale a cui il governo centrale obbliga le amministrazioni locali attraverso i patti di stabilità, pretendendo che i comuni si trasformino in esattori aggiuntivi. In Valmusone abbiamo un chiaro esempio di ciò nel ricorso massiccio a mobilità e cassa integrazione, con molte fabbriche come la Roal a rischio tagli o chiusura mentre la regione, per fare un esempio, ha bocciato  il progetto di ospedale di rete ed obbliga i comuni a chiudere gli ospedali rimasti.

Patti di stabilità e delocalizzazioni sono due aspetti della ricaduta locale delle politiche imposte dalla eurocrazia e dai governi Quisling, privi di mandato popolare. Sono conseguenza della libertà di movimento dei capitali che comporta l’adesione al mercato comune europeo e delle politiche di austerità imposte per rientrare dal debito da BCE e Commissione Europea, addirittura inserite in Costituzione e che entreranno a pieno regime con il Fiscal Compact dal prossimo anno (circa 50mld l’anno previsti, salvo aumento esponenziale del debito e degli interessi passivi).Tali misure sono insufficienti per uscire dalla crisi, una crisi non di natura finanziaria, ne ciclico-recessiva ma sistemica, come andiamo sostenendo da tempo, essendo la bolla del 2008 (scoppiata per sopravvalutazione di futures e derivati) l’effetto e non la causa che è invece da imputare alla perdita progressiva di centralità economica dei paesi occidentali, finora avanzati, a vantaggio dei Brics e paesi emergenti. La costruzione Europea vuol essere uno dei tentativi di controtendenza di tale processo e risponde a ragioni politico-economiche quanto militari-geopolitiche.
 La prima questione vede la Germania da tempo impegnata in politiche neomercantilistiche, sbilanciate sulle esportazioni e sulla contrazione della domanda interna attraverso la compressione salariale ( a stipendi alti dei lavoratori inquadrati fanno da contrappeso salari risibili del diffuso precariato). Ciò porta alla riduzione delle quote di esportazioni  soprattutto per i paesi del Sud Europa, porta alla crisi dei loro sistemi produttivi sia privati che soprattutto  pubblici, i quali vengono spesso rilevati a saldo svendita da capitali stranieri, come avvenuto per il vostro marchio. Tutto ciò, unito all’arma del debito, porta ad un processo di concentrazione di capitali in Germania e nei paesi del Nord Europa a discapito di quelli euro mediterranei, candidati a divenire Il Meridione d’Europa, l’area di sottosviluppo del sistema integrato dell’Euro se riusciranno a mantenerlo così com’è.
La seconda, di natura geopolitica, ci viene ricordata dall’acquisizione nell’Eurozona della Lettonia (con standard sicuramente lontani da quelli richiesti a noi) e soprattutto dalla tragedia che si va consumando in Ucraina. Il sistema unipolare a guida Usa affermatosi in seguito alla caduta del muro di Berlino da segni evidenti di cedimento, come dimostrato dalla crisi siriana e si va configurando la formazione di aree macroeconomiche omogenee destinate a succedergli. Una di queste è senz’altro quella europea, costruzione sub-imperialista che dovrà fare da zona di cuscinetto e pressione del sistema occidentale e Nato verso la Russia, tornata ad espandere la sua influenza.
Potrà essere questa UE con i paesi terroni-mediterranei agganciati oppure, se salta l’euro e questa implodesse, sarà una mini-Europa più coesa e concentrata a ridosso dei confini russi. Nei suoi tratti generali la crisi sistemica rientra nella definizione marxista di crisi da sovrapproduzione assoluta di capitali e di merci e tanto la finanziarizzazione, con le ricadute sull’economia reale che fanno soccombere darwinisticamente le imprese deboli, quanto le guerre rispondono storicamente alla logica capitalista di distruzione dei capitali eccedenti; per questo l’incendio ucraino alle porte della UE, la quale fa tutto il possibile per soffiarci sopra, è motivo di seria preoccupazione.
La profondità della crisi ci dà purtroppo ragione rispetto allo stuolo di imbonitori che continuano a indicare luci in fondo al tunnel,  viste solo da loro mentre continuano a regalar soldi alle banche ed imporre al popolo ricette lacrime e sangue, ma per uscirne nell’interesse delle classi popolari occorrono misure forse altrettanto drastiche che rimettano in discussione il modello capitalista e l’organizzazione stessa della società che ne consegue perché il modello basato sui profitti da crescita compulsiva e consumismo è arrivato al suo limite storico, intollerabile  per lo stesso equilibrio del pianeta. Continuare  a inseguire i tassi di crescita ed alti margini di plusvalore assoluto nei paesi arretrati od in  fase di sviluppo ci sta portando alla disoccupazione di massa, occorre quindi progettare  una produzione di beni e relazioni sociali improntati ai reali bisogni delle persone, una economia socializzata, diciamo pure un nuovo socialismo. Per far questo sono secondo noi indispensabili alcuni passaggi: Uscire dall’euro e tornare alla sovranità monetaria, ricusare parzialmente il debito, nazionalizzare il sistema bancario e le proprietà strategiche, punire con confisca di capitali ed espropri (previsti anche in Costituzione) fino al carcere chi delocalizza o intenta fughe di capitali; occorre attuare un piano di investimenti pubblici per salvare le attività in crisi promuovendo l’autogestione operaia (vedi legge Marcora, un democristiano!), promuovere un fronte comune con altri paesi che vorranno intraprendere un simile percorso, senza partire dalla moneta ma cercando la convergenza sulle fondamenta strutturali degli assetti sociali, economici ed istituzionali.  Tali passaggi non bastano a costruire un nuovo socialismo ma ne sono imprescindibile premessa ed a riferimento di questi vanno valutate anche le prossime elezioni europee.
Tornando al merito per cui siamo qui a manifestare ribadiamo che la lotta per la cassa integrazione e gli ammortizzatori supplementari attuata dai lavoratori Roal, Best, Indesit, di tutto l’ormai interminabile elenco continuamente da aggiornare, va strenuamente sostenuta ma il pessimismo della ragione ci porta a ritenere che prima o poi finiranno, ben prima che ritorni il lavoro, almeno finché si consentirà ai padroni di delocalizzare e non saremo arrivati a stipendi delle Tunisia o Moldavia di turno. E’ probabile che il contaballe di Firenze salito a Palazzo Chigi cercherà di approfittare della provvisoria popolarità per tagliare proprio lì,sulla cassa integrazione, magari con il contentino di un qualche forma di reddito sociale. Allora riteniamo che occorra un cambio di paradigma; un rottura nella cultura operaia e sindacale da tempo subalterna alla egemonia di quella dell’impresa ed imbrigliata in schemi concertativi, o nel migliore dei casi rivendicativi, per recuperare forme di autogestione e mutualismo solidale che sono a fondamento della storia stessa del movimento operaio. Il salto deve essere quello di prendere in mano, laddove esistono le condizioni ed il know –how sufficiente,  le aziende che dismettono ed i settori in crisi attraverso forme di autogestione sostenute dall’intervento pubblico che deve garantire finanziamenti, forniture di materie prime ed accesso a mercati protetti  quando necessario. Ciò è potenzialmente possibile alla Roal, dove i dipendenti rimasti devono rimediare agli errori dei manufatti tunisini, lo era alla Best che ha trasferito in Polonia gli operai più qualificati strapagandoli per insegnare il mestiere ai locali. Occorre però la volontà politica che non può essere certo di questi governi di vendi patria imposti dalla Troika, ma di un governo popolare di emergenza al servizio del paese e dei lavoratori ed occorre la indispensabile cinghia di trasmissione di sindacati realmente di classe, i quali dovrebbero rompere definitivamente con una concezione dei lavoratori come capitale variabile per cui si può al massimo pretendere quote di remunerazione maggiori per incoraggiarne, invece, il protagonismo nei processi  decisionali e direzionali. Perché malgrado la falsa la premessa del  jobs act del già detto contaballe  non è l’impresa a creare il lavoro ed il progresso;  l’impresa se ne appropria sfruttandolo per i profitti privati; sono i lavoratori a creare il lavoro, sono i lavoratori con  la loro opera a fondare le forme solidali della cooperazione sociale, sono sempre i lavoratori a produrre nelle generazioni l’intelligenza collettiva  che determina il progresso delle civiltà.

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1 commento:

  1. Leggendo l'intervento ho colto alcuni concetti politici molto interessanti che nel disturbato ascolto durante la manifestazione mi ero perso.

    Consiglio quindi agli "avventori" di superare l'impatto con la formattazione di questo testo, non molto invitante, e sforzarsi ad un confronto con i contenuti (di certo non "convenzionali").

    Al di la` di cio` che condivido o non condivido ritengo di dover sottolineare l'esortazione a "recuperare forme di autogestione e mutualismo solidale", perche` mi pare l'unica alternativa non fittizia di fronte a certe situazioni e, nel contempo, fondamento di una cultura del lavoro che possa prospettare alla societa` qualche soluzione realistica ed innovativa di fronte al crollo dell'attuale "sistema mondo".


    Ciao.

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