lupo

venerdì 16 agosto 2013

Guerra civile egiziana

Guerra civile e guerre per procura.
Può aiutare a comprendere la tragica partita che si gioca in Egitto la consistenza dei finanziamenti che il paese ha ricevuto nell’ultimo anno di presidenza Morsi: circa 15 ml di dollari da Arabia Saudita ed Emirati, 7 dal Qatar, 2 dalla Turchia ed i soliti 1.3 annuali dagli Usa. Ciò rende conto della divisione nel mondo sunnita dove Arabia e Qatar rivaleggiano tra loro nel contendere alla Turchia (dalle rinnovate mire neo-ottomane) l’egemonia nell’area e nella umma islamica. Qatar e Turchia si sono prontamente schierati con la confraternita mentre l’Arabia e le loro dirette propaggini salafite hanno appoggiato il golpe dell’esercito che ha destituito il legittimo governo. Gli Stati Uniti sembrano stare alla finestra,  limitandosi a reazioni dovute e di facciata, forse illudendosi che questo scontro sia finalizzato a determinare chi potrà offrirsi quale più sicuro alleato; Francia e Germania si agitano invano dimostrando soltanto di tener loro le redini dell’UE e quanto siano impotenti.
Tutto questo concede una grossa boccata di ossigeno alla Siria, dal momento che la guerra civile egiziana radicalizzerà ulteriormente le già profonde divisioni nelle formazioni  internazionali al servizio degli interessi di questi governi che stanno combattendo il regime di Assad. Ma questo è il quadro esterno, con agenti che cercano di intervenire e direzionare processi dalle cause interne profonde e decisive. La destituzione di Mubarak, conseguenza di una spontanea quanto disorganizzata ed eterogenea sollevazione di piazza, ha mostrato da un lato la decadenza dei regimi laici nazionalisti e dall’altro che soltanto le forze islamiste avevano la struttura forte per passare all’incasso. Ma quelle mobilitazioni, in parte pacifiche, in parte violente, hanno anche mostrato un protagonismo di masse popolari e giovanili non più disposte a tollerare forme dittatoriali o paternalistico-autoritarie di pseudo-democrazie. Hanno anche mostrato desolanti limiti di prospettiva, dal momento che guardavano prevalentemente a modelli liberali occidentali, insieme a carenze organizzative che dovrebbero far riflettere molto i nostrani fautori del partito leggero o addirittura virtuale. Con i Fratelli Musulmani che avevano invece una organizzazione molto pesante, con legami internazionali, milizie, associazioni caritatevoli assistenziali è altra cosa ed i militari si sono assunti la responsabilità di gettare il paese in una guerra civile sanguinosa sul modello algerino, ma dalle conseguenze ben più devastanti perché tutto sommato l’Algeria era più defilata, come posizione geopolitica, rispetto ad un Egitto perno degli equilibri tra mondo arabo ed Israele. I settori poveri e rurali della popolazione sostenevano il governo Morsi e costituiscono la base popolare più consistente delle mobilitazioni, animate tuttavia anche da parte dei ceti medi ed intellettuali urbani, i più spaccati al loro interno e tale frattura ha finito per relegare ad un ruolo inconsistente o pilatesco quanti si erano resi protagonisti delle proteste di piazza Tahrir. Fermo restando che il golpe e la repressione della legittima  rivolta è da condannare e tutte le ragioni siano oggi dei Fratelli Musulmani non possiamo esimere critiche alle scelte di avventato equilibrismo operate dal governo Morsi. In politica estera si è premurato di assicurare Usa ed Israele, garantendo continuità nei trattati e tagliando anche alcune linee di rifornimento per Hamas e Gaza; poi si è recato con noncuranza a fraternizzare con Ahmadinejad, per poi strizzare l’occhio ad Erdogan, appoggiando il suo interventismo in Siria ed interrompendo le relazioni con Damasco. Insomma ha dato prova di un eclettismo che ha finito per scontentare molti. All’interno ha cercato di forzare l’islamizzazione del paese in una società dove il laicismo era profondamente penetrato, soprattutto nelle realtà urbane, contribuendo in questo modo ad esasperare quella polarizzazione sociale che ha fornito ai militari, ossia al vecchio blocco di potere, il pretesto per il colpo di mano. Una soluzione ragionevole potrebbe essere quella di fermare la repressione e formare un esecutivo di salvezza nazionale che attui la liberazione dei dirigenti e manifestanti imprigionati, consegni l’esercito nelle caserme ed indica nuove elezioni  ma temiamo che non sia tempo della ragione, tantomeno ci si può aspettare pressioni autorevoli dalla cosiddetta comunità internazionale che attraverso le sue istituzioni, Onu in primis, si è finora adoperata a soffiare sul fuoco dei conflitti  d’area per perseguire i propri interessi.

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