lupo

mercoledì 7 gennaio 2015

Ancora sul cinema

Alle 17 di oggi gli imperterriti cinefili attueranno un presidio davanti al comune cui seguirà confronto pubblico con il sindaco. ospitiamo volentieri questo ulteriore contributo:

“Nel cinema, gli attori sono la borghesia, l’immagine è il proletariato; la colonna sonora è la piccola borghesia eternamente oscillante tra l’una e l’altro. L’immagine, in quanto proletariato, deve prendere il potere nel film dopo una lunga lotta.”
Eccola qui, riportata per intero! Una eventuale epigrafe che in modo improbo pre-tende di sintetizzare l’idea –proprio “l’idea”- della cosiddetta settima arte. Siamo negli spazi e nei tempi del montaggio di Io sono un autarchico, primo lungometraggio, del 1976 (prima data da memorizzare fra le altre che qui si richiameranno), di Nanni Moretti. Un film che è una meta-riflessione (ovvero, avanzamento eccedente dell’astratto capitalistico sul concreto della vita materiale) sulla condizione borghese (piccola, media e grande) incapace di situarsi attivamente nel flusso di trasformazione del reale che gli scorre addosso, avvolgendola dal “di dentro” e costringendola asserragliata in anguste angosce esistenziali e in fallimenti esistentivi (tanto per menzionare en passant categorie heideggeriane che diverranno à la page in quegli anni) Un improbabile “tutto” (dialetticamente? binariamente?) decomposto di quell’epoca e di quella stagione, tanto particolare quanto cruciale e dirimente della storia italiana, viene rappresentato a mezzo pellicola: l’attacco esplicito alla commedia “neorealista” e sinistrorsa del cinema –“specchio” del costume- italico (Wertmüller, Monicelli fra tutti) e quello congiunto alla critica della semiotica decostruttivista e postmodernista, incompresa, incomprensibile (soprattutto fra i “giovani comunisti”, post-togliattiani e neoberlingueriani della FGCI, sezione romana, frequentati al tempo da Moretti Nanni); e inoltre incomprensibilmente posta, con forse inconscia palindromica perizia, come dialettica riflessiva (di nuovo!) del montante capitalismo neoliberista, “desiderante” e anticentralista/antistatalista, di quegli anni (si veda tutto ciò nei due “cammeo” dell’allora giovane sociologo Alberto Abruzzese e del critico Beniamino Placido assieme ai relativi riferimenti a Deleuze-Guattari. Il “tutto-discorso” messo a ipotetico valore nello “scandalo” scoperto della cripto-autorialità per serratissime critiche di riviste e film pornografici). Non si può, per altro, dimenticare un altro topos del film, ossia quello relativo al momento in cui il Moretti/Michele Apicella legge e rilegge i passaggi del Capitale di Marx riguardo al dualismo/feticismo delle merci (valore di scambio/valore d’uso), ammettendo candidamente di non essere capace di comprendere alcunché e dubitando –cartesianamente si direbbe- di aver, forse, “sbagliato ideologia”. Eppure, riprendiamo la citazione: “l’immagine (il lavoro vivo produttivo dell’immaginazione che però al contempo diviene lavoro prodotto estraniato, prodotto-immagine alienata in altro da sé, nonché il disincanto nei confronti della passata prossima “immaginazione al potere”) è il proletariato, gli attori sono la borghesia (l’appropriazione –di rappresentazione/rappresentanza- individualistica del lavoro-opera- che è estraniato, in quanto alienato soggetto-attività e come oggetto-prodotto dell’immaginazione), la colonna sonora è la piccola borghesia eternamente oscillante fra l’uno e l’altra (la funzione meschinamente sottomessa e gregaria; ovvero, dell’ascoltare subordinato al vedere: “ciò che si vede e si deve soprattutto e soltanto vedere (panopticon foucaultiano, o al limite orwelliano); imperativo che funziona specialmente quando “non c’è niente da vedere”. Beh! Verrebbe da dire parafrasando poeti cantori “se non del tutto giusto, poco di sbagliato”.
A tale proposito, un’altra data un altro autore-regista: 1928, immanente e imminente anno aurorale (termine anche derivabile da aura) di quel 1929 e quindi dell’anno della “crisi delle crisi” (almeno così fu dichiarato, prima che accadesse quella corrente che dura da otto anni e gode a tutt’oggi di ottima salute) del capitalismo, allora di foggia sec. XX, il “breve”. Luis Buñuel scrive, dirige, produce e interpreta Un chien andalou. È una pellicola la cui scena incipit è tra le più memorabili, impressionanti e insuperabili della storia cinematografica. L’immagine-movimento (o anche immagine-tempo, scomodando Gilles Deleuze) rappresenta una sequenza implacabile di scene concatenantesi, eppure senza accelerazioni: la luna, il rasoio affilato, l’occhio sinistro della donna, il taglio dell’occhio … Capolavoro surrealista e arte efficacemente primordiale del montaggio; quando la parola Photoshop poteva avere solo un significato idiomatico letterale senza neanche minimamente poter alludere a tecniche digitali odierne. L’occhio –come quello di Bataille, per niente estraneo a quel melieu transalpino del movimento promosso da André Breton, fatto anche e soprattutto da ispanici come lo stesso Buñuel e Salvador Dalì- è il soggetto-oggetto, l’osservante-osservato, l’attivo-passivo, il taglia-incolla del lavoro –inteso come attività- del montaggio proprio (e per questo ex-propriabile) del regista-cineasta in quanto autorialità che vuole, pretende di essere più che avere l’opera, in un ormai ben riconoscibile cortocircuito ambito e desiderato da tutte le avanguardie storiche (cioè novecentesche): azzerare lo scarto tra arte e vita quotidiana.
Del resto del potere della rappresentazione cinematografica come “Opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica”, e perciò di massa, un giudizio pressoché incontrovertibile lo aveva già stilato Walter Benjamin. Con la tecnica cinematografica l’opera d’arte perde la sua aura; il valore espositivo e simultaneamente riproducibile nel tempo e nello spazio prevale, soverchiandolo, il valore cultuale-rituale di autenticità e unicità di una presupposta “universale-naturale-classica” (per così dire) bellezza attribuibile, in quanto giudizio, a un’opera che voglia dirsi d’arte. Tutto ciò comporta una conseguenza “epocale”: la tendenziale fine della distinzione fra autore e pubblico. O, meglio forse, una modificazione radicale del rapporto fra i due elementi.
Andy Warhol, in particolare, nell’arte “propriamente detta” e Guy Debord, con la nefasta profezia scaturente dalla di lui assai rigorosa analisi critica della società dello spettacolo, metteranno, ciascuno a proprio modo, una parola definitiva sullo stato dell’arte (da intendersi tanto come condizione quanto come istituzione/istituzionabilità, senza limite politica), nonché sul potere della rappresentazione, non più mimesis della realtà, bensì vera e propria teurgia dello sviluppo capitalistico che attraversa, finendolo, un secolo (il “breve”) e si accavalla, iniziandolo, un millennio (siamo all’oggi). È, di nuovo, una cortocircuitazione –assai perversa- tra astratto e concreto, dove quest’ultimo si allontana dall’esperienza vissuta fagocitandosi nel primo. La rappresentazione sussume realmente (in senso marxiano) la realtà, annichila la mediazione e perciò revoca nell’a-significanza l’idea di rappresentanza, nell’eterna ripetitività riflessiva dell’uguale modernità (tra Nietzsche e Ulrich Beck). Il capitalismo è oggi soprattutto il finanziario. Il simbolico-convenzionale (persino “ritual-cultuale”) denaro (=D) non ha più bisogno di mediarsi, cioè di scambiarsi con una merce (=M), fosse pure quella della corporeità della forza-lavoro, per accrescere la sua potenza e il suo dominio virtuale (e perciò astratto-effettuale) sul reale-concreto (dinamico potenziale): D-D’ (‘ = accresciuto) è la tautologica formula –cioè, identità senza differenza- che descrive il potere demiurgico dell’ultimo capitalismo finanziario che azzera ogni mediazione, fosse pure solo quella della concreta merce M(D-M-D’, era la formula del capitalismo pre-industriale e poi industriale tout court). In tale formula, che rappresenta il processo dominate corrente, non c’è spazio né tempo per i “corpi intermedi” (“non c’è posto! Non c’è posto”, come dichiarava, inveendo, seduto accanto al cappellaio matto a ridosso di una lunga tavola circondata da sedie vuote, il leprotto di marzo di “Alice nel Paese delle meraviglie”).
La famigerata “Scuola di Chicago” negli scorsi anni ’50-’60 (una prolifica fucina di teorici –i “Chicago Boys”-del neoliberismo e progettisti di “piani Condor” da implementarsi specialmente nel “cortile di casa” latino americano) aveva appena iniziato a somministrare robuste dosi di nuove “idee” (che diventeranno e saranno) dominanti a destra e a manca: capitale umano e imprenditoria di se stessi; ovvero adeguarsi al nuovo imperativo categorico di misurare econometricamente –costi/benefici/rischi/assicurazioni preventive e valutazione quantitativa- il proprio corso vitale. Hic Rhodus, hic salta! Ognuno sia artefice di se stesso e se si fallisce è solo colpa propria:né mano invisibile del mercato né mano visibile dello stato: tutto è individuabile-individualizzato (non esiste società, esistono solo individui e famiglie avrà già detto l’altro capostipite del neoliberismo von Hayek, ripreso a menadito dalla Thatcher). Quale potrebbe essere qui lo spazio per “corpi intermedi” e per “rappresentanze”?
Diceva un esperto, ben più che semplicemente coinvolto nel settore, quale è Oliviero Toscani, che “la pubblicità [in senso commerciale]è la pornografia del potere”. Se, come dovremmo francamente fare, prendere sul serio questa “sentenza”, allora dovremmo pure poter asserire che la pornografia è la (unica) pubblicità [anche in senso politico-sociale] del potere. Nell’era della riproducibilità, indefinibile quando non infinita,tecnico-digitale; dell’imprenditoria di se stessi come imperativo direttivo per ogni condotta individuale e sociale; del capitale umano (ovvero e soprattutto del corpo scarnificato e scarnificabile in merce astratta e misurabile in quantità virtuali di denaro) … In quest’era, appunto, che statuto ontologico-esistenziale può avere un “corpo intermedio” oppure un autore che “metastruttura” un testo diverso dal contesto? Negli anni ’80 del secolo appena trascorso ci fu il boom delle videocassette: il VHS, soprattutto di film porno, fondeva lo spettatore con l’HOME VIDEO (si confronti Videodrome di David CRonemberg), nonché fondava materialmente l’individualizzazione sociale in coerenza con lo Zeit-Geist della Tathcherite-Reaganomics. L’era di Internet  ha portato “Youporn”, con i suoi video a tema per ogni gusto (“mature”, “attrici” –sic!-, “grasse”, “bisexual”, “solo male”,“fai da te” ecc. ecc). Ma questo è solo un aspetto delle potenzialità di autoproduzione/autogestione (parole chiavi dell’antagonismo detournate/sussunte dal capitalismo contemporaneo) che offrono le nuove tecniche/tecnologie, traducendole nella neolingua come “start-up”. Però è un aspetto non affatto irrilevante. Dobbiamo certamente rilevare la consunzione o, meglio, l’esaurimento di certe “mediazioni” come quelle che intercorrevano fra autore-opera-attore, come queste categorie (anche categorie del “politico”) siano ora quantomeno cortocircuitate. Oppure dobbiamo renderci conto di come quelle mediazioni fisiche che rendevano il “cinema”, in quanto spazio pubblico e luogo possibile di fruizione dell’opera d’arte “pubblicata”, siano in effetti divenute economicametricamente (in senso capitalistico) “insostenibili”. Eppure, possiamo altresì rilevare che nella pornografia in quanto unica pubblicità includente e a suo modo universale nella sua spinta individualizzante, durante l’epoca capitalistica contemporanea, forze “improduttive” (ovvero, non capitalisticamente produttive) attraversano la sua organizzazione societaria, bucandone gli schermi e gli specchi che ne articolano la strutturazione funzionale. In un passo della Genesi (38, 8-1): Perciò Giuda disse a Onan: “Entra dalla Moglie di tuo fratello, compi il tuo dovere di cognato e suscita prole a tuo fratello”. Ma Onan, sapendo che la prole non sarebbe sua, quando si accostava alla moglie di suo fratello, impediva tutto emettendo in terra, per non dare prole al suo fratello defunto. Ciò che egli faceva dispiacque molto al Signore, e fece morire anche lui.” Onanismo o elogio dello spreco (così, più o meno, anche Bataille nel saggio sulla Sovranità) come infunzionalità, inoperosità nei confronti dei comandi del Potere che ordina con schermi multisala. Suscitare l’ira “divina” del capitale-rappresentazione è una bella ipotesi perseguibile. Reclamare “il cinema” come spazio pubblico di spreco e insieme antieconometrico per una nuova costituente pubblicità è, vivaiddio, “inutile”!

Romano Martini

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