lupo

mercoledì 18 dicembre 2013

Riposa in pace


Se l’anima sopravvive al corpo si può immaginare l’incazzatura che avrà provato quella di Mandela all’ipocrita spettacolo fornito dai potenti della terra  e dai politici sudafricani che ne millantano l’eredità. Dalle dichiarazioni dell’ennesima giusta guerra intrapresa da Hollande in Centrafrica, il quale spergiurava davanti al poster del defunto il fine umanitario dell’impresa, fino alla retorica obamiana, suo collega di Nobel e senz’altro con più morti sulla coscienza, visto che i droni sono più letali dei collari di fuoco. Per non parlare dell’attuale presidente Zuma, delegittimato dalle contestazioni pur durante l’orazione funebre, e dell’interprete fasullo per sordomuti.
Non sappiamo invece quanto avrà condiviso sul tema più dibattuto e controverso, specialmente sui media nostrani, quello della riconciliazione. Tema sensibile perché tocca l’attualità del governo della crisi nella formulazione delle larghe intese e perché rimanda al precedente storico, fondativo per la nostra incerta democrazia, della amnistia di Togliatti per gli ex fascisti. E se le miserie attuali di casa nostra sembrano inopportune da paragonare all’epopea della lotta antiapartheid, non così possiamo dire della sofferta e complessa scelta che pose fine alla guerra civile italiana e ne rese incompiuta la lotta di liberazione nel possibile esito rivoluzionario.
Cominciamo col chiarire brevemente alcuni aspetti di Mandela “ colui che provoca guai” che le agiografie di questi giorni hanno sorvolato o minimizzato. Egli apparteneva all’etnia Xhosa e divenne dirigente rivoluzionario dell’African National Congress, nonché quadro clandestino del partito comunista sudafricano, teorizzando la combinazione di azioni di massa con la lotta armata e mise presto in pratica tali principi fondando la Lancia della Nazione, struttura combattente addestrata  in Angola  ed altri paesi amici, in cui assunse ruolo di comandante dal 1961. In seguito alla sua attività venne arrestato due anni dopo e fu condannato all’ergastolo nel 1964. Trascorse circa 27 anni in prigione assumendo un ruolo di guida politica e simbolica, lasciando la guida sul campo ai suoi collaboratori, tra i quali la seconda moglie Winnie Madikizela, anch’essa di formazione marxista. Non barattò mai la  sua libertà con la rinuncia alla lotta armata, propostagli dal presidente Botha e fu inflessibile sia con i nazistoidi afrikaner quanto con i collaborazionisti neri, in particolare Swazi e Zulu. Lo scontro interno e l’ostilità internazionale al sistema segregazionista dei bantustan, crescente anche nell’opinione pubblica degli sponsor come Usa ed Israele, portò ad un processo di transizione guidato dal nuovo presidente De Klerk e lo stesso Mandela, scarcerato nel  1990. Qui iniziò, come spesso accade nei processi rivoluzionari, la parte più difficile e contraddittoria; la politica di riconciliazione nazionale non  fu soltanto frutto di una visione alta ed includente ma, più prosaicamente, conseguenza della rinuncia al programma di nazionalizzazione delle risorse che rimasero in gran parte in mano ai bianchi ed alle multinazionali sostenitori del passato regime. La traduzione di tali scelte con la formula: " il potere politico ai neri e quello economico ai bianchi" non si allontana troppo dal processo  reale. Ci furono le epurazioni degli elementi radicali e di orientamento socialista, tra i quali la moglie  Winnie, certamente non immune da eccessi ed errori, visto che era chiamata a fare parte del lavoro sporco “risparmiato” al coniuge imprigionato. Ci furono i processi pubblici patrocinati dalla Commissione per la verità e riconciliazione, consistenti in confessioni, spesso drammatiche, dei crimini commessi da entrambe le parti in cambio dell’amnistia. Passaggi che caratterizzarono la presidenza Mandela dal ‘94 fino al ‘99 ma non incisero profondamente nel miglioramento delle condizioni materiali di vita della gran parte della popolazione nera.  Il nuovo millennio vide Mandela relegato (ed autorelegato) in un ruolo di grande padre della nazione, che non gli impedì di combattere i brevetti sulle cure all’Aids, né di mantenere un ruolo simbolico, sempre più offuscato dai suoi corrotti successori.  Fino a quando la maledizione della storia non si manifestò a presentare il conto, come  nel massacro perpetuato dai poliziotti neri contro i minatori neri che protestavano per salari e diritti; proprio i lavoratori di quelle miniere che la dirigenza dell’Anc ed il suo leader carismatico non avevano avuto il coraggio di nazionalizzare. In contesti  storici  profondamente diversi la politica di riconciliazione nazionale, la rinuncia  in suo nome  ad istituire il socialismo, ripropongono in Mandela e Togliatti la responsabilità di una rivoluzione incompiuta.

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